Boccaccio - Cesare Marchi
Italiano | 1975 | 337 pagine | ISBN: 9788817433907
La borghesia, che all'alba del Medioevo prossimo venturo ha tanti fasulli detrattori, ebbe nell'autunno dell'altro Medioevo un cantore di razza, Giovanni Boccaccio. E’a questa una tesi sostenuta con vigore da Vittore Branca (Vittore Branca, Giovanni Boccaccio - Profilo biografico, Sansoni), e largamente condivisa da quanti vedono nel Decamerone la rappresentazione della «commedia umana» della società comunale, puntualizzata nella sua più ardimentosa espressione, l'epopea dei mercanti alla conquista del mondo. Amico devoto del Petrarca, Boccaccio ne fu politicamente assai lontano. Petrarca aristocratico, amico dei Visconti, esaltava Augusto; Boccaccio borghese, anzi popolano, ammirava Mario. Petrarca si aspettava la salvezza d'Italia da una discesa di Carlo IV, stimato da Boccaccio nient'altro che un beone.
Come Orazio, Petrarca evitava il vulgus profanum, inorridiva al pensiero che le sue poesie finissero in bocca ai carrettieri, non credeva nella nuova lingua volgare, preferiva «alla tirannia di tutto un popolo quella di un principe solo». Boccaccio credeva alle istituzioni repubblicane, svolse con onore funzioni pubbliche, e se fece aspre critiche alla democrazia fiorentina, queste furono di natura morale, mai politica. Deplorò che salisse alle massime cariche dello stato gente indegna ma non contestò il sistema, diremmo oggi. Sulle orme di Dante, Petrarca sognò una anacronistica restaurazione dell'autorità imperiale, ma per il realismo borghese di Boccaccio il «santo uccello» era già spennacchiato.
Forse fu questo contrasto politico che indusse Giovanni, pur senza compro mettere la schietta amicizia e l'assiduo vincolo culturale, a rifiutare l'invito di Francesco, che voleva andasse ad abita re con lui, scrive Branca nel suo libro che ripropone l'introduzione a Tutte le opere di G.B. già pubblicato sotto la sua direzione presso Mondadori. Nel fervore di interessi suscitato dal recente centenario, ci sembra quanto mai opportuna questa «enucleazione» del profilo biografico, ad uso degli specialisti e non solo di quelli. Vittore Branca, uno dei massimi studiosi di questa materia, ci racconta con una prosa saggiamente librata tra rigore filologico e fluidità, calore narrativo, !'apparentemente tranquilla esistenza di quello che, in altra sua o pera, egli chiama «l'ultimo dei medioevali»; l'infanzia agra di bastar do, la giovinezza nella dolce vita della Napoli angioina, l'inesausto amore delle lettere, la passione per Fiammetta, i problemi familiari di ragazzo-padre per cinque volte, la crisi religiosa.
Figlio d'un mercante che faceva la spola tra Toscana e Francia, fu avviato prestissimo alla mercatura e alla banca, contro voglia, naturalmente: già a sette anni scriveva poesie e il padre guardò quei componimenti come fossero macchie di scarlattina. «Discepolo» dell'arte del Cambio, di tutti i bancari che cova no il romanzo nel cassetto, Giovanni fu sicuramente il più illustre, non senza un debito di riconoscenza per quel mondo, non amato, di partite doppie, di tratte, di cambiali, che gli sedimentò nella memoria preziosi materiali narrativi. A Napoli giungevano velieri colmi di merci e di storie meravigliose, le avventure degli audaci mercanti che con qui stavano il mondo rischiando la vita e, quel che più conta, il denaro. «Boccaccio fu l'appassionato cantore di quei paladini di mercatura» annota Branca con felice immagine. Quasi una nuova chanson de geste. Nella «gente nova» disprezzata dai suoi due aristocratici idoli, Dante e Petrarca, Giovanni vide i pionieri d'una società che cambia (in crescita, per dirla in sinistrese), sotto il triplice segno della Fortuna, dell'Ingegno e dell'Amore. Questa trinità laica presiedette alla nascita del capitalismo mercantile, straordinaria epopea che ebbe nel Decamerone la sua Iliade e in Boccaccio il suo Omero.
Cesare Marchi
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