Simone Martini - Enrico Castelnuovo
"L'annunciazione"
Serie "Piccola biblioteca del Sole 24 ORE"
Italiano | 2003 | 63 pagine
Dopo nove mesi di un restauro meticoloso, prudente, attento, il 9 aprile sarà di nuovo esposta agli Uffizi la «Annunciazione» di Simone Martini, uno dei dipinti chiave nella storia dell’arte in Occidente. Il restauro rivela un pezzo diverso e permette di sciogliere una antica ipotesi critica, quella che attribuiva i due santi laterali, S. Ansano e S. Massima, a Lippo Memmi, lasciando a Simone Martini solo la parte mediana con la Annunciazione. Adesso, confrontando le diverse figure dopo la pulitura, non vi sono dubbi, i due Santi sono di Simone e lo sono anche i quattro tondi inseriti in alto, per cui a Lippo, che figura nei documenti ma con pagamenti di minor entità, dovremo assegnare la cornice, quella originale ora perduta, e forse i santi dei piedritti o anche la predella, pure scomparsa. Vedo il restauro in una sala ben protetta ai piani alti degli Uffizi; me lo illustrano Alessandro Cecchi, direttore del Dipartimento di pittura del Medioevo e del Rinascimento degli Uffizi, che ha guidato il lavoro, e il restauratore Alfio del Serra che ha di recente pulito il «Battesimo» di Verrocchio e Leonardo e la «Annunciazione» di Leonardo. Il dipinto di Simone si presenta con intensità, vibrazione di colore, sensibilità spaziale nuove; le tre tavole, i laterali e la Annunciazione, ora appoggiati a parete senza cornice, sono molto cambiati. Il manto della Vergine, un tempo grigiastro o verdognolo, come si vede ancora in tutte le riproduzioni, adesso è leggibile, modellato e di un intenso blu di lapislazzulo; il bianco manto dell’Angelo che non aveva volume, anzi era quasi come un ritaglio, ritrova adesso almeno parte delle spaziate ombreggiature azzurre sulle pieghe falcate; il trono sotto la Madonna, un’opera di sapore raffinatamente gotico nei suoi intarsi – alla certosina -, mostra le venature dei legni, che fingono esser noce e cipresso; ancora, le ali dell’Angelo sono dipinte a colore su foglia d’oro, oro poi inciso per segnare di lumeggiature le parti dipinte; il fondo aurato stesso è ora mobile, vibrante, mai piatto. L’idea dello spazio, la concezione delle figure dentro una architettura, delle forme come strutture scolpite, deve far riflettere; inoltre la riscoperta della tessitura dei volti, della raffinata mimica delle espressioni, richiede una spiegazione. Ma, prima, conviene ascoltare Alfio del Serra: «Il dipinto era stato pulito all’ingresso in Galleria nel 1799, e ancora in seguito, e si erano usate colle animali come legante, che facevano trazione scodellando il colore; il colore è tempera su finissima tela di lino applicata su tavola. Si è dovuto ridistendere il colore a freddo umidificandolo lievemente; si è reintegrato l’oro del fondo con piccole ricuciture; si sono tolte le ridipinture, il colore è cambiato e così il senso del volume». Infatti nel quadro si legge un altro mondo, quello degli oggetti e della loro fisica concretezza: il marmo variegato su cui posano Angelo e Madonna, il vaso aurato coi gigli, il pampino e la fronda di ulivo che, precisa Cecchi, «si è ritenuto di integrare con i frutti di cui si è ritrovata la imprimitura sull’oro, olive simmetriche al dattero di S. Alsano e alla palma di S.Massima». «Vedendo le figure – aggiunge – la supposta divisione di mani fra Simone e il cognato Lippo Memmi, all’uno l’ Annunciazione e a Lippo i laterali, si risolve a favore di Simone, infatti i pagamenti a Lippo sono molto inferiori; certo è che la qualità delle tre tavole è identica». Il restauro ha permesso di capire altre cose: nella cornice tardogotica del 1894 sono inseriti tre frammenti della firma e iscrizione originaria ma scomposti; oggi leggiamo infatti:
«Simon Martini et Lippus Memmi de/anno domini MCCCXXXIII/Senis me pinxerunt»
ma la scritta originaria doveva leggersi:
«Simon Martini et Lippus Memmi de Senis me pinxerunt anno domini MCCCXXXIII»,
con la data alla fine come in altre scritte dello stesso Simone e di altri artisti, ad esempio quella della «Presentazione al tempio» di Ambrogio Lorenzetti, ora agli Uffizi, dove leggiamo «Ambrosius Laurentii de Senis fecit hoc opus anno domini MCCCXLII». Anche questa tavola stava in origine, come la Annunciazione di Simone, nel Duomo di Siena. Simone in questo dipinto sembra avere dimenticato le citazioni giottesche che pure ritroviamo in alcune parti della Cappella di San Martino nella Basilica Inferiore di Assisi, la cui conclusione dei lavori viene fissata da una parte della critica al 1317 ma da altri, a cominciare da Enzo Carli, a metà anni Venti. Infatti la serie dei Santi e delle Sante uniti a coppie sotto arcata nella cappella appartengono alla stessa cultura delle due figure ai lati della «Annunciazione» del 1333, il che fa pensare a una cronologia più tarda, almeno di parte, della cappella assisiate. Ma dove Simone ha assunto questo nuovo linguaggio, diverso dal lungo, dialettico, complesso dialogo con Duccio che è evidente nella «Maestà» del Pubblico Palazzo di Siena dipinta in una prima fase attorno al 1315, ben diversa dai rifacimenti attorno al 1321, densi di più sottili sensibilità gotiche? La «Annunciazione» doveva avere una grandiosa cornice, traforata e dipinta; era certo una imponente pala d’altare con, sotto le arcate laterali, due grandi figure statuarie, Sant’Ansano e Santa Massima, e al centro l’Angelo Falcato e il movimento a spirale della Madonna. Dove trova dunque questi modelli Simone? Non certo nella scultura o nella pittura italiana, ma nei cantieri dell’Ile de France e a Parigi; qui riscopre il grande classicismo degli inizi del ‘200, quella evocazione dell’antico che troviamo a Reims e a Naumburg, a Bamberg e nei transetti di Chartres, e che ritroviamo anche alla Sainte Chapelle e poi nelle oreficerie, negli avori, quelli che tanto aveva amato anche Giovanni Pisano. Insomma la «Annunciazione», conferma il dialogo di Simone con la civilissima Francia, parla di gesti, di sentimenti, di sensibilità ed espressioni nuove. Annunciazione insomma come teatro, ma anche come scoperta della verità dei particolari, quelli dei legni del trono, del vaso, dei frutti, del dattero fiorito o delle foglie di ulivo senza confronto, adesso, nella pittura europea. Nel 1339 Simone si reca alla corte papale ad Avignone, dove morirà nel 1334, per dialogare di nuovo con l’arte d’Occidente: le splendide sinopie della lunetta di facciata, scoperte a Notre-Dame-des-Doms ad Avignone, hanno la stessa levità, la stessa traspirante tensione del dipinto del 1333. Insomma, Simone dialoga con l’arte di Francia fin dalla metà del secondo decennio ma, nel grande dipinto ora restaurato, propone un racconto raffinato, sublime e insieme aulico, come la poesia dell’amato Petrarca.
da “Il Corriere della Sera”, 18/03/2001
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